REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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IL CAMMINO ARTISTICO DEI BEACH HOUSE
Un percorso lineare, via via sempre più amplificato e vivido, un sogno che s’avvera. Il percorso dei Beach House, ovvero Victoria Legrand e Alex Scally, sa di predestinazione, riporta indietro il tempo alle origini del dream pop, ai Cocteau Twins, agli Opal. A quando da noccioli di voce e chitarra nascevano alchimie uniche, storie semplici, domestiche, con un portato però tutto generazionale, nato per i posteri. La loro storia, musicalmente, a dir il vero, non è facilmente riconducibile a questo o quel protagonista storico del movimento, mancano i riferimenti diretti alle wave, al blues, allo shoegaze e a tanta looping elettronica del dream; semmai la loro passione per la lentezza ha portato ad altrettanti paragoni con Red House Painters, Tarnation, Dakota Suite e soprattutto Low; il loro però, è un cammino singolare, unico, un crescendo agrodolce e bohemien, una seppiata unione di antiche fragranze mitteleuropee e americane tra i profumi vocali, gli organi grevi e il contralto di lei e gli arpeggi ariosi e femminei alla sei corde (anche synth) di lui, come se sulle teste della coppia volassero nuvole gonfie di pioggia e lo studio di registrazione fosse una vecchia soffitta di specchi, un portale della memoria.
Victoria Legrand e Alex Scally si conoscono nel 2004 frequentando la scena indie rock locale di Baltimora, città simbolo della New Weird America e in genere di molti artisti eccentrici, da Frank Zappa a Animal Collective e Dan Deacon. Apparentemente fuori contesto, la Legrand, che è nata in Francia ma si è appena diplomata al locale Vassar College, e il più schivo Scally ne rappresentano in un certo senso l’anima in controluce, due spettrali ombre di delicata psichedelia, avvolgente e appartata. Non passa molto tempo e la coppia inizia a sperimentare a 360° sia umanamente che emotivamente. La voce della Legrand sembra un incrocio tra Kendra Smith, Stevie Nicks, Françoise Hardy e Nico, e la strumentazione (organetto, drum machine, chitarra slide e, alla bisogna, qualche found object) è ridotta la minimo per il massimo effetto. In due giorni, in uno scantinato, nasce Beach House, l’album omonimo di una ragione sociale a lungo cercata e poi apparsa come dal nulla, e tutto d’un tratto sembra perfetta. A pubblicarlo è la Carpark, piccola etichetta di Washington che non ha un vero genere di riferimento, e quell’anno, è il 2006, pubblica anche i lavori di Takagi Masakatsu e Belong.
Beach House accende subito alcuni potenti riflettori sul duo a partire da Pitchfork e, due anni più tardi, sempre via Carpark, la conferma si chiama Devotion. L’album, che pare uscire da un isolamento fatto di polverosi ricordi e agrodolci maliconie, si poggia su una agreste psichedelia, un fascino particolare e misterioso che si risolve in alcuni dei picchi creativi della sfuggente – almeno fino ad ora – carriera del duo. È l’album dell’indie-consacrazione, a cui segue un tour importante, l’egregio completamento di una prima parte di carriera. In tracklist, classici come Gila, Heart Of Chambers e All The Years, ma anche ottime canzoni.
Due anni più tardi, anticipato dal singolo Norway, esce Teen Dream. Dalla piccola Carpark, il duo ha firmato per Sup Pop e, grazie al finanziamento della label, in cabina di regia, per la prima volta, c’è un produttore professionista come Chris Coady, che in curriculum può vantare lavori per Yeah Yeah Yeahs, TV on the Radio e Grizzly Bear. Proprio per quest’ultimi, Victoria contribuisce ai cori di Two Weeks, poi inserito nell’album Veckatimest, e Slow Life, compresa nella colonna sonora di New Moon. Non è la sola traccia registrata in questo lasso di tempo: Used to Be è un nuovo singolo che (riarrangiato) verrà compreso nell’album successivo, e Play The Game è la cover dei Queen che i Beach House registrano per la serie di compilation album organizzata da Red Hot Organization per la raccolta di fondi per la lotta all’AIDS (l’album è Dark Was The Night).
Teen Dream è quindi un nuovo inizio. Un lavoro dove «c’è più movimento e un’intensità fisica e più tangibile», afferma Vicotria. In un certo senso, è il loro album più visuale e ‘rock’. Sicuramente è la prova più professionale e, differentemente dal passato, le session per la coppia sono lunghe (nove mesi) ed estenuanti (fino a 16 ore al giorno). «Eravamo ossessionati dalle scoperte musicali che fanno i teenager», afferma la Legrand a Spin, il cui zio Michel ha composto in passato soundtrack per film quali Quell’estate del ’42 e Yentl. E proprio con la cinematografia si lega strettamente un album che, sempre con il budget offerto da Sup Pop, può godere di un videoclip per ogni canzone presente in scaletta.
Passano due anni e viene pubblicato Bloom (2012) un lavoro che sostanzialmente «può essere visto come un continuo di Teen Dream ad angoli smussati e con pigmentazione ad acquerello», afferma Riccardo Zagaglia, «grande coesione di fondo, produzione più nitida e levigata e le pieghe maggiormente dark del loro sound rilegate a livello lirico, con temi quali la morte e la perdita dell’innocenza». Allo stesso modo, sempre sotto il controllo artistico del duo, continuano gli abbinamenti cinematografici nella loro musica, tanto che del brano Forever Still viene girato anche un short film diretto dalla coppia e da Max Goldman. Il video, ispirato da Live at Pompeii dei Pink Floyd, vede i Beach House suonare dal vivo i brani del disco in varie location attorno a Tornillo, Texas, dove l’album è stato concepito.
A cura di Edoardo Bridda