REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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DUE VIDEO DEGLI ARCADE FIRE
Soprattutto con il concept album The Suburbs i canadesi Arcade Fire sono riusciti a frequentare con lucida emotività uno spazio espressivo in cui una sensibilità tutta americana trova asilo musicale, uno spazio che riflette sentimentalità, turbamenti, incertezze e l’equilibrio precario di una precisa fascia d’età, quella degli adolescenti, la stessa che aveva trovato espressione e definizione in alcune opere dei migliori cineasti americani di questi ultimi anni (Noah Baumbach, Gus Van Sant, Wes Anderson in particolare).
The Suburbs è un disco che si fa interprete, insomma, di una sottile inquietudine che, già testimoniata al cinema, serpeggia attraverso la memoria di un tempo (la giovinezza), i luoghi che diventano miti e una quotidianità che, scandita dalle impressioni e i dubbi dei giovani protagonisti, diventa poesia delle piccole cose. Le canzoni – che suonano come insieme composito di quadri e quadretti scollegati, legati da voli pindarici o da salde connessioni sotterranee, con derive drammatiche e picchi tragici – alternano il registro malinconico a momenti più solari, evidenziando segni che rinviano le miniature impressioniste delle loro liriche anche ai microcosmi di certa letteratura americana che ha marcato a fuoco il recente immaginario.
Da artisti totali quali sono, gli Arcade Fire fanno sì che lo spirito che anima questo disco si rifletta poi in tutto l’ambito artistico che esso ricomprende, a cominciare dai video che ne vengono tratti che, lungi dall’essere delle mere illustrazioni dei brani, muovono dal medesimo presupposto: quello di sollecitare, attraverso un’altra modalità espressiva, quella visiva, il medesimo sentire che emerge dalle canzoni.
In questo senso il video di Spike Jonze Scenes From the Suburbs, nato come normale clip promozionale e poi man mano espansosi, fino a diventare un vero e proprio mediometraggio, rende in chiave lievemente distopica il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta: i sobborghi (case regolari, grandi centri commerciali, prati annaffiati: il vuoto insomma) sono, insieme, luoghi e non luoghi, ambienti vissuti come alienanti piste di gioco in cui scorrazzare allegri di giorno per poi trasformarsi, di notte, in inquietante zona di guerra: la periferia conosce il coprifuoco, il mondo dei grandi è una distante minaccia, la realtà quella piscologica dei ragazzi.
L’opera in video non si limita insomma a tradurre in immagini i brani del gruppo, va di pari passo con essi: Spike Jonze, regista anch’esso sensibile al tema (Nel mondo delle creature selvagge, in forma favolistica e fortemente metaforica, parlava della stessa cosa) crea insomma un film in cui visione, concetto, musica e poetica si muovono di pari passo e nella medesima direzione.
Il pop orchestrale degli Arcade Fire scava l’anima, insomma, porta alla luce ricordi come fotografie sbiadite, rovista nell’intimo e quindi, proprio perché tanto del nostro quotidiano oramai vive e si riflette su internet, usa quello spazio virtuale e si impone in esso. Il video interattivo, allora, prima ancora di essere un grande ritrovato tecnologico e il traguardo di una visione sofisticata e all’avanguardia, viene utilizzato perché consente di rendere al meglio quello che è il nocciolo della poetica del gruppo canadese.
Ecco perché l’altro capolavoro in video tratto dal disco è The Wilderness Downtown di Chris Milk: perché questo lavoro, usando l’interattività in una chiave fortemente intima, fa sì che, sulla base del brano We Used to Wait, attraverso l’uso di Google Maps in ambiente Chrome, lo spettatore, avendo preventivamente fornito l’indirizzo della casa della propria infanzia, si trovi di fronte a una molteplicità di finestre che illustrano la corsa in bici del protagonista virtuale come fatta attraverso i luoghi della sua personale infanzia. Ancora una volta il tempo narrato dal gruppo è un tempo sospeso, un tempo interiore, un tempo soggettivo che viene esplorato attraverso un meccanismo che, per quanto risponda a istanze sperimentali, finisce col soggiacere a logiche squisitamente vintage.
Se l’interattività coinvolge direttamente il fruitore, la personalizzazione dell’esperienza può essere intesa in senso letterale: la canzone del gruppo diventa quella del proprio passato e la tecnologia legata all’interazione viene asservita alle esigenze della memoria di chi sta guardando ed ascoltando.
The Suburbs – che paradossalmente è un fragile terzo disco, meno inventivo e convincente dei due precedenti – si afferma quale opera sintomatica come poche, sorta di affresco visionario di un mondo in crisi che celebra un’era transitoria (la nostra) con lucidità inusitata, muovendo dalle illusioni e dalla conseguente capacità degli adolescenti di dipingere con la fantasia momenti, situazioni e ambienti che uno sguardo oggettivo restituisce nella loro cruda sostanza. Un disco in cui la nostalgia è un attimo e l’ineluttabilità del tempo trascorso è oggetto di consapevolezza vigile, come sintetizzato dai versi finali: «Se potessi riavere indietro / Tutto il tempo che abbiamo sprecato / Non farei altro che sprecarlo ancora», The Suburbs (Continued).
A cura di Luca Pacilio