

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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INTERVISTA AL PADRE DI BLOB
Il critico cinematografico Enrico Ghezzi, inventore di Blob e di Fuori Orario. Cose (mai) viste, è stato tra i protagonisti di Digital Heritage, laboratorio dal basso sugli archivi audiovisivi a Bari tra Mediateca Regionale Pugliese ed ex-Palazzo delle Poste. Lo abbiamo intervistato a proposito delle sue attività e del ruolo dei materiali d'archivio nel settore audiovisivo moderno.
Come è cambiato Blob, soprattutto fare Blob, nel corso del tempo?
Blob − e questo è il suo principale difetto − è stato poco innovativo rispetto a se stesso, ma è fatale: Blob è una cosa talmente semplice, banale e intensa che non può che incoraggiarti a questo. In qualche modo, il meglio che tu possa fare è fermarti qui. Ho sempre detto che la sua qualità prima è di essere insoddisfacente, luogo dell’insoddisfazione; non può piacerci, non può essere bello, in sei-sette ore di lavoro facciamo le cose in corsa, anzi a occhi chiusi… è vero che sai già dove andare a parare, anche a cose che non hai visto, ma paradossalmente dovresti vedere tutto, ed è la promessa malcelatamente non mantenuta da Blob. Tutta la televisione è bella o bellissima, perché antropologicamente oltre. Questo è il paradosso di Blob, l’insoddisfazione. Ma va bene così, in un certo senso.
Perché resiste ancora?
Per motivi psico-politico-quantitativo-economici. È un programma che costa pochissimo rispetto a qualsiasi cosa si cerchi di mettere alla stessa ora. Ed è anche l’unico a resistere in uno spazio in cui il programma dominante è, da molto tempo, Striscia la notizia − in un certo senso dello stesso genere −, e questo è molto importante. Un altro motivo di resistenza è quello dello sbattere la testa sempre contro lo stesso muro, soprattutto conto le stesse teste, gli stessi stomaci: il gruppo di Blob, non solo per pigrizia, è stato mantenuto più o meno integro. In realtà, già un anno dopo la sua nascita, avrei voluto fare il programma in un altro modo, un po’ alla maniera di The Cameraman di Buster Keaton, cosa che ha anche causato problemi con altri autori di Blob, come se fosse un tentativo di lesa maestà nei nostri stessi confronti.
L’idea di un ‘contenitore anarchico di immagini’ e di una comunicazione fatta di frammenti sembra essere stata definitivamente sdoganata, e in questo Fuori Orario. Cose (mai) viste e Blob hanno dato un contributo importantissimo alla televisione Italiana. Riconosci dei programmi in particolare come legittimi eredi?
No, perché Blob e Fuori Orario sono stati fatti in una situazione di casuale ma fortissima, oggettiva coincidenza di intenti di un piccolo gruppo di persone. Oggi non ci sarebbe la libertà di farlo, oggi che tutto si basa sul piano della paura, della copertura, della par condicio, di tutte queste stronzate. Quando abbiamo cominciato c’era la Lega che arrivava dal nulla, la crisi e il crollo dei partiti di massa… noi, all’epoca di Angelo Guglielmi direttore di Rai 3 (1987-1994, ndr), abbiamo fatto quello che volevamo, delle cose folli. In quel periodo sono nati, per esempio, Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, un programma dirompentissimo, un film; poi, subito dopo, Chi l’ha visto?, un programma di fiction, e Blob, che è un programma di invenzione dell’esistente.
Anche Blob è una forma di found footage. Come ti spieghi la diffusione così massiccia di pratiche di riutilizzo d’archivio nel cinema degli ultimi decenni?
Ci sono diversi indizi di uso del found footage anche oltre quello che sembrebbe inizialmente il voluto, il permesso. Penso, per esempio, a Materia Oscura di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, dove ci sono immagini che raramente hai visto e che, ripetendosi, ti suscitano ogni volta una domanda, le stesse domande. Ed è proprio il confronto con le immagini che ti fa recuperare l’ipotetica realtà. Di fronte a questo film mi sono sentito in qualche modo responsabile, ma al contempo felice, perché c’è l’abbandonarsi alla bellezza di una cosa trovata, alla forza delle immagini, alla loro ripetitività.
Il web, le nuove tecnologie e modalità di fruizione dei film sono una minaccia anche per le visioni Fuori Orario?
No. Può darsi che, evolutivamente, puntino già a un altro spettatore o che, comunque, questo sia il segno dell’insoddisfazione dello spettatore di adesso, che dovrà fare altro, vedere altro ecc. In un certo senso, però, Fuori Orario è vicino a questa nuova galassia, perché è abbastanza estremo, indipendentemente dalle scelte… certo, trovi dei registi e non altri, registi che poi nell’insieme dipingono l’identità molto forte, in negativo o in positivo, di Fuori Orario. È interessante l’elenco dei film che abbiamo trasmesso. In quasi venticinque anni, personalmente avrò mandato in onda non più di tre-quattro film che avrei preferito non trasmettere e che sono stati inseriti non per motivi politici o di obbligo, ma perché ci servivano per quella notte lì. Nessun film indifferente, solo amati o molto belli.
Fuori Orario ha sempre indirizzato il suo pubblico alla visione di film stranieri sottotitolati. Come consideri l'assoluta preponderanza del doppiaggio in Italia, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi?
Credo che il doppiaggio sia una questione abbastanza secondaria, e comunque io la vedo in senso anche evolutivo, mi impressiona e appassiona molto questa trasformazione, un uomo che parla con un’altra voce. Personalmente, invece, faccio sottotitolare qualsiasi cosa. Eppure, l’ultima volta che abbiamo trasmesso Orizzonti di gloria di Kubrick abbiamo mandato, una dopo l’altra, la versione doppiata, quella in inglese sottotitolata e quella restaurata, ed è andata benissimo: questo per me è l’ideale, ma può esserlo anche la sovrimpressione sia sonora sia visiva, che è proprio uno dei segni più forti di Blob e di Fuori Orario – soprattutto di quest’ultimo, la cui sigla parte da una delle più belle scene d’amore del cinema, dall’Atalante di Jean Vigo, una scena di sovrimpressione amorosa.
Quale sarà il futuro di Fuori Orario?
Rispetto a Blob, Fuori Orario è ancora più legato alle persone che lo fanno. È una sorta di redazione molto omogenea, nonostante ci sia un gruppo di ‘antichi’ e un altro più giovane man mano costituitosi, con meno archivio nella testa; poi ogni tanto si sono aggiunti altri. La cosa principale è, però, la stessa di Blob, ossia un certo abbandono e una certa esagerazione, il far vedere troppo, notti di sette ore di film, questa avidità del durare. Ma quello che abbiamo fatto con Fuori Orario è, in un certo senso, l’opposto di Blob, che per me è un film infinito, sfinito, di millecinquecento ore; Fuori Orario, invece, il non stop, è come se portasse il film a essere, per così dire, attualità.
Secondo i Lumière il cinema era un’invenzione senza futuro. Fuori Orario esiste anche per il timore che possa essere – diventare – un’invenzione senza passato?
Magari fosse un’invenzione senza passato. L’illusione − politica − di Fuori Orario è quella di rendersi conto, con una specie di scoraggiamento, paura, sgomento o incanto, che fai un lavoro su una cosa che è ancor più fatta di passato, di presente congelato poi scongelato. La cosa televisivamente più importante di Fuori Orario è il suo emettere cinema che contamina molto chi vede, chi entra in contatto, anche con le cose più noiose e insopportabili. Secondo me, una delle cose più belle che abbiamo fatto, dal punto di vista filmico, sono i girati del primo viaggio di Kennedy in Italia: due ore di ripresa, noiosissime. Oppure quella parata stupenda per i cinquant’anni della Rivoluzione d’ottobre sulla piazza Rossa, una notizia di TG da un minuto e mezzo, immagini che erano state gonfiate, quasi slabbrate, come le riprese della luna dei primi astronauti, quasi sgretolate. E, per due ore e mezza, questo passaggio di tutti i reggimenti, gli altoparlanti del Cremlino, quei momenti lì diventano cinema, cinema come quello di John Ford.
Enno Patalas (per anni alla guida della Cineteca di Monaco di Baviera e fra i massimi esperti di restauro del film, ndr), una volta ha detto che la storia del cinema è la storia della sua distruzione…
Sono posizioni ideologiche. La storia dell’umanità, del pianeta, è la storia della sua erosione. Quello che a noi resta è sempre quello che resta, raramente resta il costruito, il voluto. Poi il cinema è una bella rovina, un bellissimo, smisurato Colosseo.
A cura di Leonardo Gregorio e Marilù Ursi
