REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI BARI
N° 31 DEL 11/08/2009
DIRETTORE RESPONSABILE MICHELE CASELLA
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L'IDENTITà NEGATA (E PERCIò RAFFORZATA) DEI DAFT PUNK
Ha un effetto straordinariamente detossinante cercare le loro facce e non trovarle dietro i caschi robotici. I Daft Punk ci sono ma non si vedono, buona parte dei componenti del contemporaneo star system si vede ossessivamente ma non c’è. Al servizio di selfie, immagine scrutante del proprio volto servita a tutte le ore del giorno, qui si risponde con l’occultamento, l’assenza, la sottrazione del servizio di autoimposizione all’altro h24 (rarissime le foto diffuse che li ritraggono ‘dal vero’).
I Daft Punk viaggiano su altre galassie, a bordo di astronavi: «Il fatto è che vogliamo sognare, ci piace la magia, mentre Twitter e gli altri social network hanno il difetto di uccidere la fantasia. Se vai a vedere uno spettacolo di prestigio non vuoi sapere che cosa ci sta dietro», hanno dichiarato a «Vanity Fair». E, pertanto, indossano caschi dal 1999, in seguito – raccontano – all’esplosione di un campionatore. Da allora, i veri volti di Guy-Manuel De Homem-Christo e Thomas Bangalter sono celati da due caschi ormai iconici, maschere che precipitano tutti noi in un gioco ancestrale, nei riti del teatro antico.
Una volta hanno detto: «Non amiamo farci ritrarre. In parte per perpetuare il mito Daft Punk e in parte perché fin dall'inizio abbiamo preferito porre maggiore importanza nella musica. A dir la verità ci piace l’idea del duo di produttori dall’identità sconosciuta. E poi abbiamo tante maschere. Penso che l’idea delle maschere complichi e allo stesso tempo semplifichi le cose». Di certo, aiuta a plasmare un mito.
Nel 2006 arriva inaspettatamente un contributo nodale alla definizione dell’ontologia daftpunkiana che è anche momento culminante della loro potenza videoimmaginifica. Al Festival di Cannes viene presentato Electroma, un film che loro stessi dirigono; scritto e pensato insieme a Cedric Hervet e Paul Hahn. Poco più di settanta minuti in cui, peraltro assai coraggiosamente, i Daft rinunciano a utilizzare le proprie musiche e anzi antologizzano generi e autori, da Todd Rundgren a Brian Eno, da Curtis Mayfield a Linda Perhacs, fino a liricizzare sempre di più con Allegri, Tellier, Haydn e Chopin verso il disperato e, se vogliamo, romantico, epilogo.
Ma rinunciano anche a interpretarsi, infatti Hero Robot #1 e Hero Robot #2, dai pantaloni e giubbotti neri di pelle con marchio Daft Punk sulla schiena e, naturalmente, caschi sono interpretati da due attori, Peter Hurteau e Michael Reich. Eroe robotico ancora altro da sé, a giocare con l’attribuzione delle identità, l’interscambiabilità dei ruoli quando la maschera è il mezzo. Electroma è l’attraversamento della natura e dei desideri di una coppia gemellare in una cittadina alla Lynch, certo, ma anche alla Carpenter (il tema della comunità mostruosa ritornerà in un altro video, dall’album Human After All, The Prime Time of Your Life, diretto da Tony Gardner, in cui una bimba che non si capacita del proprio essere umana in un mondo di scheletri finirà per scuoiarsi e morire, vittima in realtà di un’allucinazione notturna). Tutti, in questa cittadina americana, hanno caschi in testa come loro, mamme e figli, vecchi e spose; tutti sono privi di facce e, dunque, di identità. Ma i nostri eroi – come tutti gli eroi che la tragedia classica ci ha consegnato – non si accontentano della propria natura e lanciano una sfida, compiono il loro atto di tracotanza che, da Prometeo ad Aiace, viene sempre punito. Loro vogliono un volto umano, vogliono diventare uomini. Ci provano in un laboratorio dal bianco kubrickiano abbacinante, dove dei volti vengono plasmati sui loro caschi, volti tragicamente ridicoli, improbabili. La comunità li respinge, il sole scioglie inesorabile le loro facce posticce, transeunti. Dissolti per sempre alla loro aspirata umanità, così come si scioglieranno le due statue innamorate del bellissimo videoclip di Instant Crush diretto da Warren Fu, da Random Access Memories – ma la dissoluzione sarà al contrario conquista di sentimentale e vitale contatto, realizzazione del sogno.
Il loro instancabile vagare, metafora della natura umana, certo – il vagare e cercare che comincia sin dalla prima sequenza su una Ferrari nera e poi, continuamente, a piedi fino alla fine – riprenderà fino a giungere in un deserto che prende anche la forma di una donna, origine del mondo e della vita. Qui, ormai persi, i due Daft decideranno di staccare i loro processori e avviare la propria autodistruzione, attuando una delle azioni più peculiarmente umane: il suicidio. Perché il cuore non c’è ma se ne percepisce il battito. Il loro, tuttavia, è un genoma elettrico, un electroma, e la presa d’atto sta nella scena finale in cui uno dei due si toglie finalmente il casco e, proprio in esso, vede riflesso il proprio volto, una mappa di processori. Riuscirà, con l’ausilio del sole, a prendere fuoco e a illuminare, fendendolo, il buio come una torcia. Fuoco che continua a camminare.
A cura di Leonardo Gregorio